Carte alla mano, con un gruppo sparuto di testi e un ultimo, tormentatissimo abbozzo abbandonato alle soglie del 1820, è difficile parlare di un Leopardi drammaturgo. Ma se il teatro resta ai margini della sua esperienza letteraria, a differenza della prosa filosofica delle «Operette morali» e della poesia dei «Canti», è anche vero che il lettore dello «Zibaldone» si imbatte spesso in appunti, postille e digressioni che danno origine alle pagine più importanti del suo pensiero. È il caso di una nota come quella del 21 luglio 1823: un promemoria, pressoché insospettabile, sul teatro del tardo Cinquecento che nasconde in realtà i primi passi di una rivoluzione teorica destinata a cambiare radicalmente la poesia leopardiana. A partire da questo insolito spunto di lettura, che anche a distanza di anni continuerà a guidare i percorsi dello «Zibaldone», Martina Romanelli rilegge una fase cruciale della riflessione leopardiana sul senso e sulla legittimità della poesia all’indomani della crisi testimoniata dalle «Operette». Sulla scorta di testi e strumenti raramente messi in gioco anche a proposito dell’ultima produzione leopardiana, i termini e i problemi su cui a partire da «Zibaldone» 2999 si sviluppa la critica al genere teatrale assumono un nuovo significato, fino a rivelarsi un’occasione di fondamentale, e forse irripetibile, riflessione sulla letteratura che trova nella poesia l’ultima forma di riscatto di fronte al dramma dell’esistenza.